
L’obiettivo europeo è avere in Europa valori del gas pre-bellici, che si aggiravano intorno ai 20 MWh. Articolo a cura di Pierpaolo Signorelli.
Probabilmente nelle scorse settimane agli annunci del presidente americano Donald Trump non si credeva più di tanto; certo non lo si immaginava nella misura assunta dai dazi in questi giorni. Ed invece il tycoon con gradualità diverse ha imposto a circa una sessantina di paesi dazi all’esportazioni pesantissimi, fino ad arrivare alla cifra del 145% alla Cina e paesi satelliti.
Anche se questi valori sono sospesi, pro tempore, e forse verranno riveduti, siamo al di fuori di qualunque logica economica - commerciale. È bastato apporre poche firme per scatenare una tempesta perfetta che in tre giorni ha bruciato secondo Goldamn Sachs quasi 6000 mld di plusvalore nelle borse mondiali e far retrocedere i listini ai livelli di anni addietro.
L’impulso a questa linea è di natura politica e proviene dal basso, dalle fasce di americani che hanno pagato sulla loro pelle il peso di 25 anni di guerre, cominciate dall’11/09 con il crollo delle Torri Gemelle, e combattute nell’insidioso e vasto mare della Globalizzazione. Un mare che punisce severamente gli errori politici ed economici perché ne amplifica gli effetti. Ed è esattamente quello che è successo agli USA, dove la politica militare ha richiesto un ampio dispendio di soldi pubblici, con conseguente accelerazione del già elevato debito pubblico.
Un debito pubblico che non ha trovato sufficiente fondamento nel risparmio privato nazionale, sia perché questo è eroso dalla dispendiosa “american way” che richiede coperture finanziarie per la scuola, college, sanità ecc, sia perché i risparmiatori americani, circa il 60% della popolazione adulta, ha per lo più preferito l’investimento privato (azioni, obbligazioni, fondi d’investimento) a quello pubblico, (titoli sul debito), come l’exploit sui titoli dell’IT ha confermato, trainate dall’incontenibile crescita delle 7 Big Tech (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft, Nvidia e Tesla).
Queste macro società, da sole, capitalizzavano a gennaio di questo anno la cifra di oltre 18 mila miliardi di dollari. Una cifra raggiunta non solo mediante speculazione, ma anche attraverso il potere evocativo della “nuova frontiera” che tali aziende suscitano, accattivando l’interesse di tantissimi risparmiatori americani ed esteri, distogliendoli però dall’indirizzare i propri risparmi verso il debito pubblico americano, anch’esso stellare per dimensioni, ma in negativo.
Un debito pubblico che non può perdurare senza un piano di rientro e che deve trovare una via di sostentamento finanziario. E la presente amministrazione americana ritiene che tale via sia quella della politica daziaria. Tanto che, negli scorsi mesi, il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, si dichiarava “preoccupato dalle tensioni geopolitiche”, e “dall’incertezza derivante dalle politiche commerciali statunitensi che condiziona gli scambi internazionali, gli investimenti e la crescita”.
L’obiettivo di Trump è duplice: imporre una sorta di “tassa sull’import”, ma in modo indiscriminato perché non viene fatta una selezione delle merci, bensì di paesi, e ce ne sono alcuni come Cina, Giappone, UE che esportano beni estremamente diversificati e, spesso, altamente funzionali ai vari processi produttivi delle aziende americane, le quali, almeno nel breve e medio periodo dovranno sopportare costi maggiori per produrre.
Questo comporterà un inasprimento dell’inflazione e un maggior rischio di default per quelle aziende – e non sono poche – che hanno già un’esposizione debitoria. E tali aziende sono comunemente quotate in borsa. Perciò, con i loro eventuali fallimenti si trascineranno dietro sia i risparmi dei piccoli investitori – che in questa settimana si stima abbiano mediamente perso circa 14.000 dollari a testa – sia, soprattutto, gli investitori istituzionali: banche e fondi d’investimento. L’effetto domino, come già è successo per i mutui subprime è dietro l’angolo.
Il secondo obiettivo di Trump è quello di svalutare il dollaro al fine di rendere le merci americane più competitive e di facilitare l’attivazione di nuovi investimenti nel proprio paese. Entrambi gli scopi sono finalizzati a potenziare la crescita interna, sperando di convincere investitori nazionali ed esteri ad attivare nuove fabbriche e ad accrescere l’occupazione.
Per come si stanno mettendo le cose, la situazione complessiva è molto seria perché l’impostazione adottata dagli Stati Uniti non considera molto fattori ormai strutturati. Per prima cosa, non si tiene conto dei processi produttivi dislocati, attivati e divenuti fiorenti negli ultimi 25 anni.
Non è pensabile che si dismetta tutto o gran parte di quanto investito, verosimilmente a lungo, in altri paesi, specificatamente l’Oriente e Cina, per poi andare a produrre negli gli USA. Secondo punto la Cina è ben determinata a difendere ad oltranza i vantaggi acquisiti negli ultimi decenni ed è trainante di numerosi paesi che la costellano: il sud est asiatic, Giappone e Corea del sud, e anche la Russia.
È difficile credere che tutti questi attori, se messi alle strette, non vadano, chi più chi meno, ad allinearsi con il colosso asiatico. Anche perché, fattore poco sottolineato, il gigante asiatico, mirando a diventare il centro del mondo e a sostituire gli USA, ha attivato un sistema di pagamenti internazionali basato sulla propria valuta, lo yuan, parallelo e/o alternativo allo Swift incernierato sul dollaro ed in uso in tutto il mondo, specialmente in Occidente. Tale mossa della banca centrale cinese è stata estesa all’Asean (Associazioni delle Nazioni del Sud- Est Asiatico) e a sei Paesi in Medio Oriente; nel complesso pesano per il 38% degli scambi commerciali mondiali, quota che con andrà a salire.
La reazioni che si stanno maturando da tutto il mondo stanno creando le prime crepe nell’entourage del presidente che ha deciso, in estremis di sospendere per 90 giorni l’applicazione dei dazi tranne che verso la Cina. Si tratta solo di una pausa per correggere il tiro e non trovarsi del tutto isolati nel mondo. I dazi che verranno applicati al momento sono “solo” del 10%, e si andranno ad articolare nelle prossime settimane, differenziandosi secondo gli accordi commerciali che di volta in volta si raggiungeranno.
Sembra paradossale, ma Trump ha messo a segno un punto a suo favore, anche se solo il giorno precedente sembrava all’angolo: la politica dei dazi è stata di fatto accettata dal mondo e si andrà a trattare non sul loro applicazione, ma sulla loro percentuale. Con la Cina invece è guerra aperta e non sarà agevole una retromarcia, visto che il colosso asiatico ha “mollato gli ormeggi” della sua proverbiale prudenza e ha colto “il guanto di sfida”.
In questo scontro tra titani, si pone l’Europa che, a dispetto di vari osservatori dubbiosi, ci sembra si stia muovendo bene. La prima considerazione che va fatta è lo stato di debolezza relativa in cui si trova oggi, stretta fra le restrizioni dovute alla guerra russo-ucraina, l’applicazione dei dazi americani e gli impegni del Fit for 55, che le impongono una posizione necessariamente prudenziale. L’Europa però, e l’Italia in particolare, si trova in una posizione strategica che potrebbe favorirla in un rilancio complessivo attraverso le commodity energetiche. L’approccio di dialogo e negoziazione è certamente equilibrato al fine di “evitare contrapposizioni e nuove fratture che peggiorerebbero gravemente la situazione”, come ha ribadito il governatore di Banca d’Italia al 31° Forex annuale al lingotto di Torino. Ciò nondimeno, l’UE ha approntato ad una prima tranche di controdazi al 25%, quindi elevati.
In tale scenario, l’Europa potrebbe inserirsi come soggetto terzo sia nella partita con la Russia che, più in generale, nel commercio mondiale, soprattutto nei rapporti con la Cina, avendo a disposizioni diverse leve, prima delle quali l’energia.
In effetti, la politica daziaria di Trump sta avendo pesanti effetti sui corsi delle commodity energetiche dal petrolio, ai raffinati al gas, che sono tutti in pesante flessione: i futures sul gas naturale olandese hanno subito una caduta di del 18% circa, ed oscillano sui 34 €/MWh avvicinandosi ai livelli più bassi da settembre 2024.
Il motivo di un simile crollo è il timore che questa guerra commerciale globale appena cominciata possa protrarsi a sufficienza da creare una stagnazione e ridurre l’attività industriale di tutto il pianeta. La sospensione dei dazi potrebbe far segnare dei rialzi, ma nessuno si illude che, a meno di capovolgimenti oggi non ipotizzabili, la battaglia dei dazi durerà.
L’Europa deve rimettere in moto la locomotiva tedesca e, più in generale, approvvigionarsi di gas a buon prezzo. La situazione presente potrebbe essere l’occasione giusta, soprattutto se gioca bene la sua partita con la Russia.
Al momento non ci sono dazi sul gnl, prevalentemente importato dagli USA, e le previsioni dei consumi mondiali per l’anno in corso sono contenute, specie con i dazi stratosferici che gli USA hanno applicato ai cinesi. Quindi l’UE potrebbe proporre un piano di pace verso la Russia, nel quale usa come carta di persuasione il suo peso commerciale, offrendo di rimuovere le sanzioni, con il ritorno dei flussi gas verso l’Europa e il ripristino del Nord Stream.
Alla sua riattivazione possono partecipare imprese europee, fra le quali spicca certamente l’italiana Saipem, fiore all’occhiello di ENI. Certamente la Russia ha interesse a far rimuove l’embargo e proporrà prezzi per il gas e il petrolio vantaggiosi. Dal canto loro gli USA sono consapevoli dei potenziali bassi livelli del gas e non hanno convenienza ad innescare una guerra commerciale sulle commodity, anche perché il costo del trasporto di gnl è maggiore e le scorte di invenduto si stanno cumulando nei depositi intorno ad Henry Hub.
L’obiettivo europeo è avere in Europa valori del gas pre-bellici, che si aggiravano intorno ai 20 MWh, magari anche meno, e di riuscire a conservare tale posizione per un tempo sufficientemente lungo, certamente per l’anno in corso. Il raggiungimento di questo target è esiziale per il vecchio continente, perché è la via più veloce per far recuperare competitività alle imprese nostrane, sia in risposta dei dazi, sia in risposta delle performances dei prodotti cinesi ed orientali che – c’è da aspettarselo – saranno, a loro volta, estremamente competitivi.
Per la UE e l’Italia in particolare disporre di energia a basso costo, specie di gas, è una vitale boccata d’ossigeno che potrebbe consentire due linee d’azione importanti: in primis, riattivare l’industria tedesca ed europea, anche allo scopo di dotarsi di un’industria bellica, come richiesto da Bruxelles; e senza energia a basso costo non sarebbe una linea perseguibile.
Secondo, contenere durevolmente l’inflazione, liberando così risorse monetarie da impiegare direttamente nell’economia reale, doppiamente utili per aumentare l’occupazione e accrescere la domanda interna per consumi. Ma per fare tutto ciò, il prezzo dell’energia deve rimanere contenuto per non meno di due anni, meglio tre. E questa volta ci sarebbe una leva in più: Prisma European Capacity GmbH non è più l’operatore della piattaforma europea per gli acquisti comuni di gas (AggregateEU), ruolo che ricopriva dal gennaio 2023.
La gestione è passata direttamente in mano alla Commissione europea, unico responsabile della gestione di AggregateEU, avente il compito di garantire la continuità dell’aggregazione della domanda e l’acquisto congiunto di gas, sviluppando al contempo un meccanismo permanente.
Il nuovo scenario è allora l’occasione propizia, poiché i dazi americani hanno una giustificazione e sussistenza politica, e non propriamente economica: l’amministrazione trumpiana esercita un’azione politica, cioè di forza, per raggiungere scopi economici.
Stanti così le cose, la Commissione europea ha anch’essa lo strumento per praticare scelte politiche e raggiungere obiettivi economici: aggregare una fetta consistente della domanda gas d’Europa (nel 2023 ha aggregato 120 mld di smc) per spuntare prezzi vantaggiosi dai russi. Le cose però possono non andare così lisce.
Trump è imprevedibile e nessuno sa con certezza che piega prenderanno gli eventi. Ad esempio è possibilissimo che in forza del minor costo di produzione di cui godrebbero le imprese europee per i costi energetici più contenuti, l’UE si veda applicare dagli Stati Uniti dazi maggiorati, imposti in chiave difensiva.
C’è poi la nuova partita con la Cina che i dazi americani hanno aperto e che l’UE si può giocare con accortezza. È infatti difficile credere che dopo posizioni così severe assunte da i due contendenti, tutto si risolva rapidamente, scemando in una bolla di sapone. La Cina ha dichiarato di puntare su se stessa e su i suoi paesi satelliti come il recentissimo accordo finanziario della banca centrale cinese lascia intendere. Però sull’Europa potrebbe puntare per far trovare sbocco commerciale a merci che altrimenti sarebbero inevase, ovvero potrebbe cercare di abbassare ulteriormente i prezzi dei beni finiti, come le auto elettriche, sbaragliando la concorrenza (v. Tesla).
Prima della guerra russo–ucraina, l’Europa, almeno alcuni paesi, aveva adottato un accordo commerciale noto come “La via della seta”, la Belt and Road Initiative (BRI), per il quale si strutturava un piano di collegamenti logistico-terrestri, pagati dal governo di Pechino (la cifra era rilevante, circa 1900 mld di euro) comprensivo di accordi commerciali fortemente vincolanti per i Paesi firmatari.
Come sappiamo l’amministrazione Byden ne chiese l’abbandono. Però adesso i rapporti di forza sono cambiati e l’UE può ripartire dal precedente accordo per disciplinare a suo vantaggio i rapporti con il gigante asiatico. Se si vuole raggiungere gli obiettivi del Repower UE, il vecchio continente deve supportarsi maggiormente con la Cina, trovando formulazioni commerciali per le quali i cinesi investano direttamente in Europa, specificatamente nelle aeree industrialmente depresse (ad esempio il mezzogiorno d’Italia).
Pensare di competere col gigante asiatico sul piano industriale è illusorio; neanche gli USA ci sono riusciti ed infatti hanno adottato la politica daziaria. Allora l’idea di fondo è che anziché importare il prodotto finito dalla Cina, ad esempio le auto elettriche e/o altre apparecchiature funzionali alla riuscita del Fit for 55 e RepowerUE, le si induca a produrle direttamente in Europa. Però le condizioni dei fondamentali devono essere accettabili, in primis il costo dell’energia.
Si potrebbero creare dei distretti industriali dedicati, nei quali il livello della tassazione fosse più contenuto. Questa volta lo scambio dovrà essere non sulle infrastrutture ma sulla produzione. E va fatto adesso che la Cina è più esposta e perciò più aperta al compromesso.
Raramente si assiste ad una “riapertura dei giochi” soprattutto nei rapporti commerciali mondiali come quella a cui si è assistito nelle ultime settimane. Se la prudenza mostrata dall’UE è stata assennata, l’inerzia, l’immobilismo, nelle settimane a venire, sarebbe fatale. La partita per la globalizzazione è aperta e l’energia giocherà un ruolo chiave.