E&S: "Risorse Ue insufficienti per decarbonizzazione settori hard-to-abate"

17 gen 2025
Il Report analizza le soluzioni per il trasporto merci su strada e la produzione di cemento: occorrerebbero investimenti tra i 3,6 e i 6,8 mld al 2050, mentre il totale dei finanziamenti europei si ferma a 164 milioni.

Nel 2023, l’11% delle emissioni italiane e il 13% di quelle europee sono state causate dalle industrie hard-to-abate: gli strumenti messi in campo dall'Unione Europa per questi settori sono infatti insufficienti quanto a risorse disponibili. È quanto rivela la seconda edizione dello Zero Carbon Technology Pathways Report, redatto dall’Energy&Strategy della School of Management del Politecnico di Milano.

Lo studio spiega che nonostante i progressi raggiunti dall’Unione Europea e dall’Italia nella riduzione di emissioni di gas serra, che a fine 2023 hanno registrato rispettivamente una diminuzione del 36% e 27%, settori come i trasporti pesanti e, nell’industria, siderurgia, chimica, ceramica, carta, vetro e cemento richiedono maggiori investimenti in tecnologie ad hoc per decarbonizzare prodotti e servizi.  

"Senza intaccare in maniera decisa le emissioni di questi settori è impossibile avvicinare i target di riduzione che l’UE si è data al 2030 e al 2050. Infatti, il quadro normativo si è mosso per renderne più stringenti gli obblighi: il sistema EU ETS ha aumentato il target di riduzione rispetto al 2005 dal -43% all’attuale -62% ed è stato affiancato dal sistema ETS 2 per quanto riguarda le emissioni prodotte dalla combustione di carburanti nei settori del trasporto e residenziale”, sottolinea Davide Chiaroni, vicedirettore di E&S.

Per il trasporto merci tramite veicoli commerciali pesanti (HDV), il rapporto analizza il TCO (Total Cost of Ownership) relativo alle due principali soluzioni previste per la decarbonizzazione del settore. Se si prende il caso di un truck che percorre giornalmente circa 400 km, si legge, il TCO di riferimento (diesel fossile) è di 0,65 €/km, che diventa 1,02 €/km per i veicoli elettrici (BET) e addirittura 2,47 €/km per i veicoli ad idrogeno (FCEV), mentre le soluzioni HVO (carburante sintetico) e BIO-GNL (biocarburante) sono simili al caso base.

Al variare della percorrenza giornaliera, lo studio mostra come sul costo chilometrico dei mezzi a trazione elettrica impatti notevolmente il capex. Infatti, nel caso di una percorrenza pari a 400 km/giorno, l’acquisto del veicolo BEV conta per il 43% del totale e quella del veicolo FCEV per il 46%, contro il 20-25% delle tecnologie tradizionali. Quando la percorrenza sale a 600 km/giorno, il peso scende a 28% e 37% per BEV e FCEV, comunque superiore al 17-19% dei truck alimentati a carburanti sostenibili.

Lo studio segnala inoltre altri due elementi relativi al carburante di particolare interesse: una crescita del TCO del veicolo BEV superata la soglia dei 400 km/giorno, dovuta alla necessità di ricorrere a infrastrutture di ricarica pubblica più costosa rispetto a quella privata, e l’impatto notevole del costo del carburante per il veicolo FCEV dovuto al prezzo dell’idrogeno verde.

La situazione, si legge, cambierebbe con l’implementazione di opportune policy ad-hoc per il sostegno di veicoli a zero emissioni: nel Rapporto è stato considerato l’impatto sul Total Cost of Ownership del meccanismo ETS 2, che porterà a un aumento del 10-15% del prezzo del carburante tradizionale, e dell’eventuale rimozione dei pedaggi autostradali per questi mezzi. Inoltre, è stato modellizzato un prezzo dei biocarburanti superiore a quello attuale, in modo da rifletterne il valore. Con queste assunzioni, l’analisi mostra che il veicolo BEV potrebbe raggiungere già oggi la parità di costo con il veicolo alimentato ad HVO, anche se l’elevato costo inziale del mezzo resterebbe una barriera significativa alla diffusione di truck elettrici.

“In Italia sono tante le barriere che rallentano la diffusione di truck alternativi, in particolare a zero emissioni: l’incertezza normativa, il costo di acquisto, la mancanza di meccanismi di incentivazione adeguati, le carenze a livello infrastrutturale e, non ultimo, l’assenza di domanda di mercato per un trasporto ‘green’”, spiega Chiaroni.

Per quanto riguarda il settore del cemento, l’analisi ha modellizzato l’impatto economico di diverse tecnologie di cattura sul costo di produzione, mostrando come, ad oggi, la carbon capture (CCS) non sia economicamente sostenibile se non adeguatamente supportata. Infatti, la somma dei costi all’impianto di cattura, del trasporto e dello stoccaggio della CO2 catturata comporterebbe un aumento del costo di produzione del cemento del 150-230% rispetto all’attuale.

Anche escludendo le fasi di trasporto e stoccaggio, spiega E&S, con incentivi a copertura delle fasi di gestione della CO2 a valle, la cattura pone seri dubbi sulla sostenibilità economica dell’abbattimento delle emissioni, visti gli impatti che avrebbe sul prezzo finale del prodotto e sulla domanda di mercato. Tuttavia, si legge, non vi sono soluzioni di cattura di CO2 su scala industriale attive nel nostro Paese, complici il costo elevatissimo della cattura e la mancanza di meccanismi a supporto degli operatori riconosciuti come adeguati.

Anche il CBAM, che dovrebbe accelerare la transizione verso un’industria del cemento decarbonizzata, non viene percepito come realmente efficace a protezione della competitività degli operatori europei: per l’installazione degli impianti di sola cattura, senza considerare lo sviluppo dell’infrastruttura di trasporto e stoccaggio, al 2050 saranno necessari tra i 3,6 e i 6,8 miliardi di euro di investimenti.