Articolo a cura di Stefano Tersigni, Tiziana Baldoni e Simona Ramberti (ISTAT)
Le acque trattate dagli impianti di depurazione delle acque reflue urbane possono rappresentare una fonte di approvvigionamento di acqua “non convenzionale” utile per integrare i volumi utilizzati per diverse finalità, escluso l’uso potabile, quali: l’irrigazione, alcuni processi industriali particolarmente idroesigenti, diversi usi civili (quali, il lavaggio delle strade, l’antincendio, le fontane ornamentali) e i servizi naturali/ambientali (quali, per esempio l’alimentazione di aree umide). Ciò contribuirebbe a ridurre il prelievo di risorsa primaria soprattutto nei periodi di scarsità idrica, sempre più frequenti a causa dei cambiamenti climatici in atto e del perdurare di storiche inefficienze di molte infrastrutture idriche.
Dal Censimento delle acque per uso civile dell’Istat risulta che nel 2020, sul territorio nazionale sono in esercizio 18.042 impianti di depurazione delle acque reflue urbane: il 56,3% è costituito da vasche Imhoff e impianti di tipo primario, il 32,5% da impianti con trattamento di tipo secondario e l’11,1% di tipo avanzato.
Questi impianti sono stati progettati per trattare complessivamente un carico massimo di inquinanti organici biodegradabili a livello nazionale pari a 107 milioni di abitanti equivalenti (a.e), di cui il 95% in impianti con trattamento secondario e avanzato, il resto in primari e vasche Imhoff. Di contro, la stima dei carichi inquinanti generati dalla popolazione presente sul territorio e dalle attività produttive è di circa 78,2 milioni di abitanti equivalenti totali urbani (Aetu).
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